Con alle spalle oltre cinquant’anni di passione per la musica sorprendermi non è certo facile ma i Picchio Dal Pozzo ci sono riusciti con il loro primo album datato 1976,ascoltato in seguito a una mia personale ricerca sui gruppi italiani progressive meno conosciuti,amanti di quel sound che si rifà a formazioni britanniche quali i Caravan,Soft Machine,Gong,National Health,East of Eden,Egg e via dicendo.Nascono verso la metà degli anni settanta per volontà di tre amici genovesi,il tastierista Aldo De Scalzi-già fratello minore del più noto Vittorio componente storico dei New Trolls-,Paolo Griguolo chitarra e il bassista Andrea Beccari.Con l’ausilio di altri musicisti tra cui Giorgio Karaghiosoff,flauto e sax,e avendo la possibilità di pubblicare un album grazie all’etichetta Grog,di proprietà dello stesso De Scalzi,il collettivo mette in scena due splendide facciate di jazz-rock intervallate da affascinanti momenti acustici di chitarra sul primo lato,di tastiere e pianoforte sul secondo,testi per lo più psichedelici-non-sense tra cui “Rusf” e le poche voci al suo interno devo dire all’altezza dei migliori prodotti dell’epoca.La collaborazione del più navigato Vittorio si fa sentire e il risultato è molto più sorprendente di quello che ci si può aspettare soprattutto se confrontato con altre opere di quel periodo,affascinano i continui cambi di ritmo,i passaggi dei fiati,i brevi assoli di Fender e un’originalità complessiva che lascia davvero di stucco..Un disco senza dubbio al di fuori di tutti gli schemi possibili e immaginabili e bisogna ascoltarlo,soprattutto più di una volta,per apprezzarne le innumerevoli sfumature.Già “Pietra Miliare” di Onda Rock “Picchio Dal Pozzo” resta un’opera fondamentale per capire la fantasia e la visionarità musicale di quel periodo e di quel gruppo di ragazzi,basti pensare che Aldo De Scalzi all’epoca aveva meno di vent’anni,l’immaginazione sonora di quel meraviglioso periodo storico che stava volgendo al termine,soppiantato in seguito dal punk e da un rock molto più cattivo,ma questa è la musica e questa è la storia,a ogni periodo il suo momento. (16/1/2025) *****
Considerati dai critici uno dei migliori gruppi psichedelici di San Francisco i “Moby Grape” sono stati allo stesso tempo anche una delle formazioni dell’epoca più sottovalutate e pure sfortunate.Fondati alla fine del 1966 dall’eclettico musicista e cantante Alexander Spence,già collaboratore e batterista dei “Jefferson Airplane” nell’album “Takes Off”,e dal produttore Matthew Katz reclutando,dopo un inizio come duo,altri musicisti fino ad arrivare alla formazione definitiva del primo disco a cinque elementi,tutti molto bravi anche come compositori,con Spence passato dalla batteria alla chitarra.Sono inoltre ricordati per aver creato uno dei più belli esordi musicali del periodo proprio l’album in questione “Moby Grape”.Classificato dalla prestigiosa rivista Rolling Stone al 121° posto tra i 500 dischi più belli di sempre il disco,prevalentemente acustico,presenta alcune originalità tra le quali l’originale formazione a tre chitarre soliste dove ognuno impegnava gli altri due in un gioco musicale intrecciato molto affascinante.Inseriti con merito nella metà del 1967 nel leggendario Monterey Pop Festival non furono poi menzionati nel film successivo per divergenze contrattuali probabilmente derivate dall’eccessiva richiesta di soldi da parte del manager Katz che oltre questo episodio forse anche in altre occasioni non li ha gestiti al meglio,questa in parte la loro sfortuna.Con le recensioni professionali ai massimi livelli non resta che ascoltare l’album e riconoscere “Moby Grape” uno dei dischi fondamentali di quel famoso 1967 diventato poi l’inizio di quella “Summer of Love” che comprenderà almeno fino ai primi anni settanta alcuni tra i più grandi nomi della musica americana di tutti i tempi. (21/10/2024) ****
E’ un gruppo musicale romano capitanato da Giorgio Giorgi voce e flauto,probabilmente tutti giovani studenti di musica,quello che si forma nei primi anni settanta dal nome “Quella Vecchia Locanda” ispirato al luogo dove gli stessi provavano,una vecchia struttura alla periferia di Roma.Appassionati di musica classico-barocca,in particolare di Vivaldi e Bach,iniziano una intensa attività live riscuotendo un discreto successo tanto che l’etichetta discografica Help,sussidiaria della più famosa RCA,gli propone un contratto per un 33 giri che esce nel 1972 dal nome omonimo.Un “concept album” dalla splendida copertina e con una affascinante linea musicale melodica,liriche interessanti,senza difetti evidenti,con richiami acustici a melodie classiche arrangiate per flauto e violino che ogni tanto lasciano il dovuto spazio a momenti chitarristici rock.Nel complesso tutto molto bello ma come per tante altre formazioni progressive dell’epoca si sente la mancanza di un vero cantante,forse l’unico punto debole del gruppo.Pur rifacendosi agli esempi musicali blasonati dell’epoca,”Jethro Tull” e “Gentle Giant” tra gli altri,si riconosce al collettivo la ricerca di una propria strada per non abbandonarsi a diventare semplici cloni dei più famosi gruppi inglesi di riferimento.Il fallimento dell’etichetta Help e dissapori interni portano in seguito a un parziale scioglimento e il successivo “Il Tempo della Gioia” del 1974,accolto freddamente da critica e pubblico,resta l’ultimo prodotto espresso da questo talentuoso gruppo musicale.L’album “Quella Vecchia Locanda” resta un gioiellino che si distingue nel fitto e complesso panorama musicale dell’epoca,un album da rivalutare rimanendo uno dei dischi più belli del nostro progressive italiano. (12/4/2024) ****
“Disintegration” l’ottavo album della band “The Cure” pubblicato nel 1989 è stato il loro più grande successo commerciale arrivando al #3 nel Regno Unito,al #12 negli USA per poi essere posizionato alla posizione #326 nella lista dei 500 dischi più belli di sempre dalla rivista Rolling Stone.La band arrivava da un doppio album di buon riscontro commerciale quale “Kiss me Kiss me” del 1987 dunque sarebbe stato semplice ripercorrere quei passaggi e invece l’opera successiva ribaltava in gran parte il loro sound,tanto solare e positivo il primo quanto dark e angoscioso il seguente.Tutto derivava dalla paura di invecchiare del leader Robert Smith che allora non ancora trentenne affrontò una difficile depressione che sfociò in una scrittura lacrimevole e avvolta da un elevato senso di pessimismo e disperazione.Certo c’erano anche composizioni romantiche quali “Lovesong” dono di nozze di Smith alla fidanzata Mary o surreali quali “Lullaby” ma il tono generale,pur in senso positivo,resta avvilente e doloroso.Nonostante i dubbi e le paure della loro etichetta,la britannica Fiction fondata nel 1978 da Chris Parry precedente manager e talent-scout della più famosa Polydor,a proposito di un possibile flop commerciale,l’album fu un enorme successo e ancora oggi merita di essere riscoperto e non soltanto nei giorni invernali di pioggia.Non si può fare a meno di riconoscere la forza di questo album e di così malinconiche melodie,”Disintegration” è un disco che affascina,ogni tanto lo devi riproporre alle tue orecchie,rimane davvero una bellissima esperienza musicale. (4/12/2023) ****
“Storia di un Impiegato” il sesto album di Fabrizio de Andrè esce nel 1973 con il cantautore genovese trentatreenne già piuttosto famoso e che si prende un paio d’anni di tempo dal precedente “Non al Denaro nè all’Amore nè al Cielo” per trovare un nuovo spunto,proseguendo con quella che era la moda di allora,i “concept album”,dischi a tema unico in modo che alla fine dell’ascolto sia rilasciato un messaggio,un monito,un insegnamento.Insieme a Nicola Piovani per le musiche e Giuseppe Bentivoglio per i testi,stavolta prende in esame i moti sessantottini francesi per costruirci sopra la vicenda di un semplice uomo,l’impiegato del titolo,rimasto affascinato da quelle contestazioni e anche se in ritardo con i tempi,rendendosi conto che non molto è cambiato da allora,si sente in obbligo di contribuire alla causa ribellandosi in solitaria e attuando un progetto del tutto personale e individuale,costruire una bomba da far esplodere davanti a un palazzo del potere per omaggiare tutti quegli studenti che qualche anno prima avevano rischiato o perso la vita acclamando cambiamenti ritenuti ormai necessari.Solo che la lotta di un singolo normalmente ha poca gloria e anche l’uomo capirà che per modificare le cose si deve essere in grado di fare numero,di organizzarsi,solo così si può sperare di ottenere gli obiettivi desiderati.Così nello svolgimento del disco,brano dopo brano,prende corpo l’intenzione dell’uomo,non prima di aver fatto piazza pulita metaforicamente di tutta una serie di figure,compreso pure i genitori,ritenute false e ipocrite e contrari al cambiamento-Il Ballo Mascherato-,per poi dopo le dovute riflessioni familiari-Canzone del Padre-,passare all’azione vera e propria-Il Bombarolo-,con risvolti finali a metà tra il grottesco e il ridicolo,la bomba non esplode nella maniera voluta,segue giustamente l’arresto e il carcere,riflettendo in primis sulla sua donna-Verranno a Chiederti del Nostro Amore-e alla consapevolezza finale che la lotta continuerà anche se diversamente dall’azione istintiva e individuale rivolgendosi nel finale a tutta quella borghesia non certo amante dei cambiamenti che si deve sentire comunque responsabile dei malesseri del nostro mondo.Attaccato all’epoca dalla stampa musicale,non accettato più di tanto dal pubblico,rifiutato dallo stesso cantautore che negli anni a seguire non canterà dal vivo alcuna canzone del disco tranne “Verranno a Chiederti del Nostro Amore”,l’opera musicale è stata in seguito rivalutata enormemente e posta alla pari degli altri capolavori dell’artista,cosa condivisibile senza se e senza ma.Ascoltare oggi “Storia di un Impiegato” significa ripercorrere quel difficile passato fatto di anni di lotte infinite e di ingiustizie subite e riflettere su parole e concetti in gran parte attuali ancora oggi oltre a lasciarsi trasportare in un viaggio musicale bellissimo come raramente il cantante è riuscito a mettere in piedi in tutta la sua carriera e in ultima analisi avere in casa un album senza tempo,sicuramente una delle migliori realizzazioni del grande Faber. (16/8/2023) ****
Riguardo ai britannici Jethro Tull il dibattito tra gli appassionati riguarda se siano mai stati un gruppo musicale progressive.Per quanto mi riguarda penso di no,almeno fino a questo album,l’affascinante “Thick as a Brick” uscito nel 1972,subito dopo “Aqualung” del 1971 considerato il loro capolavoro.Il magico flauto dello scozzese Ian Anderson per anni ha tratto tutti in inganno ricordando che lo stesso strumento era considerato tra quelli fondamentali,assieme al mellotron,per poter annoverarsi tra i gruppi progressive che in quel periodo storico spopolavano.Ma se si volge lo sguardo alle origini “This Was” del 1968 era tendente al blues,”Stand Up” datato 1969 era abbastanza folk mentre “Benefit” uscito nel 1970 quasi azzerava i generi e ripartiva da zero.Arrivava dunque “Aqualung” nel 1971 che prima col suo soggetto,un barbone che maledice il mondo e la religione perché non abbastanza attenta ai bisognosi e a chi non può certo permettersi di passare un Natale sulla neve come si evince dalla straordinaria copertina,poi per le composizioni più lunghe del dovuto e all’assimilazione dell’album ai “concept”,usanza tipica dell’epoca,viene da molte parti affermato che “Aqualung” può appartenere al genere progressive ma la cosa parve un po’ forzata.Proprio per ripicca verso una catalogazione probabilmente non desiderata il leader Anderson l’anno successivo si inventa quello che può essere definito il vero e unico album progressive della loro discografia,il bellissimo “Thick as a Brick”,per poi ritornare al loro folk combinato col rock.Nato dunque per gioco e per sfida il progetto nasce dalla pura fantasia di creare un personaggio bambino che vince un premio letterario ma all’ultimo viene squalificato perché gli scappa una parolaccia.Il termine “ottuso come un mattone” riflette perfettamente la società britannica dell’epoca,attenta molto più alla forma che alla sostanza,chi mastica inglese riferisce che i testi sono quanto mai critici verso i tipici atteggiamenti inglesi di quel periodo storico.Bellissima la copertina e tutto il suo interno,con pagine di giornale totalmente di fantasia e addirittura cruciverba da compilare,alcune interviste affermano che ci era voluto più tempo a inventare il tutto che a comporre l’intero album.Prevalentemente strumentale,diviso in due parti o suite una per facciata secondo il vecchio standard,”Thick as a Brick” è un piccolo capolavoro,godibilissimo,con una struttura acustica e orecchiabile quanto basta per annoverarlo tra i gioielli degli anni settanta,senza ombra di dubbio dopo “Aqualung” rimane un disco dei “Jethro Tull” assolutamente da riscoprire. (20/6/2023) ****
Un artista vissuto nelle contraddizioni Dino Valente.Nato a New York come Chester William Powers Jr. si diede un altro nome esagerando in originalità,uno che desiderava con tutto il cuore diventare celebre ma che poi rifiutò qualsiasi compromesso,alienandosi praticamente tutto il sistema.Ottimo chitarrista,scriveva nel 1964 un inno giovanile,”Let’s Get Together”,ne vendeva i diritti per pochi soldi assicurandosi così l’uscita di prigione,un arresto avvenuto per possesso di droga e a guadagnarci saranno in primis “Jefferson Airplane” e “Youngbloods”.Fondatore di uno dei gruppi “cult” californiani,i “Quicksilver Messenger Service”,non ne potette assaporare il successo del loro storico “Happy Trails” del 1969 proprio perché dietro le sbarre e una volta libero pubblicherà con loro un paio di dischi ma forse il loro momento era passato.Resta bellissimo questo esordio solistico del 1968 che porta il suo stesso soprannome “Dino Valente” che la leggenda vuole storpiato dal suo produttore per ripicca in seguito a una brutta lite,in origine pare fosse Dino Valenti.Un capolavoro comunque,pieno di brani prevalentemente acustici,sicuramente degni di un ascolto attento.La sua chitarra indubbiamente folk si esprime qui con l’energia tipica del rock ed è questa originalità che vale all’album “Dino Valente” un posto assicurato nel cuore di ogni appassionato del genere. (14/4/2023) ****
L’album presente nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo la rivista “Rolling Stone”,più precisamente al numero cinquanta,risulta essere “Panama e Dintorni” di Ivano Fossati pubblicato nel 1981.Reduce dal successo de “La Mia Banda Suona il Rock”,di due anni precedente che comprendeva “Dedicato” reincisa dal cantautore dopo che Loredana Bertè l’aveva portata al successo,Fossati qui compie un mezzo miracolo musicale ideando un viaggio immaginario,prendendo spunto dalla song del titolo,una traversata surreale da Londra a quella lingua di terra che separa le due Americhe e si sposta metaforicamente tra narrazioni disincantate e attitudini da vero vagabondo sempre alla scoperta della natura umana,spesso controversa e complicata.L’evoluzione del suo sound è evidente,dimentica le hit commerciali precedenti,rimane in territorio rock con “J’Adore Venise” e “La Signora Cantava il Blues” ma sperimentando nuove sonorità reggae con “Panama” e pure progressive,ricordando il suo passato nei Delirium,con “Se Ti Dicessi Che Ti Amo” dove il suo flauto crea un’atmosfera straordinaria,il tutto creando un giusto ponte tra sonorità classiche e sperimentali tutti fattori che rendono l’album in questione uno dei più belli della sua discografia.Certo verranno altre bellissime opere,”La Pianta del Té” del 1988,”Lindbergh” del 1992 solo per ricordare i più famosi,ma “Panama e Dintorni” resta un qualcosa di magico,una raccolta di brani accattivanti e godibilissimi,sostenuto da una delle canzoni d’amore più belle di sempre,quella “La Costruzione di un Amore” scritta per Mia Martini per l’album “Danza” del 1978 che lascia davvero senza fiato. (6/2/2023) ****
Emitt Rhodes,polistrumentista americano dell’Illinois,esordisce sulla scena musicale giovanissimo con i Merry-Go-Round ma quando il gruppo si sciolse decise di incidere una serie di brani tutti da solo abbandonando la A&M e ottenendo un contratto con la ABC/Dunhill,candidandosi a essere uno dei pochi al mondo,altri nomi sono Jeff Lynne degli E.L.O.,Stevie Wonder,Todd Rundgren e naturamente il mitico Paul McCartney,a comporre,suonare tutti gli strumenti,incidere le parti vocali e uscire dallo studio con il disco pronto.Registrò dunque neanche ventenne nel garage oppurtunamente attrezzato dei suoi genitori il suo primo album,”Emitt Rhodes” nel 1970 seguito da un modesto successo commerciale,#29 in USA negli album e #54 nei singoli con il brano “Fresh As A Daisy”,ma le maggiori soddisfazioni le ebbe dalla critica con la stessa Billboard che definì Rhodes uno dei migliori autori esistenti e il disco uno dei migliori del decennio.Inoltre da molte altre parti si levarono lodi a non finire per l’esordio di questo ragazzo e così con i guadagni iniziali Rhodes acquistò nuova attrezzatura e si preparò per la seconda prova “Mirror” che uscì un anno dopo.Ma il contratto capestro con la casa discografica indicava un LP ogni sei mesi,impensabile per un artista che lavorando in solitaria abbisogna dei suoi tempi,l’etichetta dunque intenta causa e trattiene tutte le royalties a risarcimento del contratto non rispettato,così dopo “Mirror”,” The American Dream” sempre del 1971 e “Farewell To Paradise” di due anni dopo di lui si perdono le tracce,sparisce dalla circolazione pur continuando a scrivere,tornando a incidere nuovamente solo nel 2016.Disco straordinario da riscoprire “Emitt Rhodes”,anche i successivi sono comunque ottimi,un gioiello paragonabile alle migliori opere dei Beatles o dei Big Star,una serie di brani e ballate incantevoli,meritevoli davvero di numerosissimi ascolti. (7/10/2022) ****
La storia degli statunitensi Big Star,affascinante e malinconica allo stesso tempo,inizia alla fine degli anni sessanta seguendo le vicende di un giovane chitarrista Alex Chilton che alla testa dei Box Tops già nel 1967 è primo in classifica in USA con il singolo “The Letter” a cui seguono da lì al 1969 alcuni album e altri singoli di successo,comunque tutta farina del sacco dei produttori Penn e Oldham,per questo in contrasto col musicista il quale all’apice del successo pianta baracca e burattini per fare società con il coetaneo Chris Bell,chitarrista anche lui,fondando appunto i Big Star.Qui ripetendo la formula autoriale Lennon-McCartney il duo,aiutati da un batterista e un bassista,pubblicano nel 1972 un semi-capolavoro,”#1 Record” che unendo le armonie vocali dei “Beach Boys” agli arpeggi dei “Byrds” rimane di una bellezza fuori dal comune.Pur elogiato in tutte le salse dalla critica il disco non vende,questo “power pop”,come venne successivamente definito all’epoca,risulta un sound troppo bianco per la tendenza nera dell’epoca,non in linea con le sonorità del momento e la casa discografica Stax non sa che farsene di questo prodotto,troppo interessata a spingere il suono black del “Southern Soul” e “Memphis Soul” di Otis Redding e Isac Hayes.Ma credetemi pochi dischi sono belli come questo,al pari dei migliori Beatles,con ogni brano che sarebbe potuto essere un singolo di successo,ma tant’è,la vita è bella perché è varia ma talvolta anche amara e bisogna pur farsene una ragione.Chis Bell abbandona dopo il primo album e pure troverà la morte nel 1978 in un incidente stradale lasciando il solo Chilton a rilasciare prima “Radio City” nel 1974,poi “3rd” nel 1978,entrambi degni di nota soprattutto il secondo,ma mai paragonabili alla prima opera che resta un piccolo capolavoro semi-sconosciuto assolutamente da riscoprire,ascoltare per credere. (17/8/2022) ****
Risulta bellissimo per me imbattersi ogni tanto in qualcosa di molto bello magari non valorizzato all’epoca o in alcuni casi direi proprio ignorato.E’ il caso di un complesso italiano progressive,uno stile musicale imperante nei primi anni settanta,chiamato Campo di Marte,fondato nel 1971 da un chitarrista toscano di nome Enrico Rosa,tra l’altro anche unico compositore sia dei testi che delle musiche.Il musicista inizia giovanissimo,suonando nei locali e accumulando esperienze,quando a un certo punto incontra un certo Mauro Sarti,batterista ma che suonava anche il flauto strumento di valore nel genere progressive.Il nome “Campo di Marte” nasce invece nel 1973,contemporaneamente all’uscita del disco omonimo,ispirandosi a un quartiere di Firenze,ma giocando anche sulla figura mitologica in chiave antimilitarista e si abbinava perfettamente a una stampa medievale,poi copertina del disco,che raffigurava mercenari turchi durante un’autoflagellazione,atta a dimostrare la loro forza e la loro tenacia.Resta uno dei pochi dischi all’esordio prodotti da una major,in questo caso la United Artist,certamente un orgoglio ma che comportava anche alcune problematiche come l’obbligo di sottostare a delle condizioni spesso in contrasto con la volontà dell’autore.Così la suite del disco,composta di sette tempi divisi sulle due facciate del vinile avendo come tema l’assurdità e l’imbecillità della guerra,venne stravolta e il disco uscì praticamente a gruppo già sciolto proprio per le diatribe sopra accennate.Solo la recente rimasterizzazione in CD ha ricomposto l’esatto ordine dei vari brani voluto dall’autore restituendo così all’ascolto di tutti noi la sua magia originaria.Praticamente ignorato dal pubblico,il disco è diventato negli anni un vero e proprio prodotto di culto,conosciuto e apprezzato in tutto il mondo,considerato uno dei migliori dischi italiani progressive e tutto ciò risulta davvero sorprendente soprattutto se si pensa che nel 1973 Enrico Rosa aveva solo vent’anni.Ascoltare e riascoltare per credere, “Campo di Marte” rimane un disco bellissimo,prevalentemente acustico,insomma una gioia per le orecchie non solo degli appassionati del genere. (27/6/2022) ****
Era il 1971 e aveva ventisette anni Judee Sill,cantautrice americana di Oakland,quando uscì il suo album omonimo di debutto e purtroppo alle spalle già un percorso di vita piuttosto accidentato,la morte prematura prima del padre poi della madre,il passaggio da un college all’altro,dubbie frequentazioni,rapine,l’inizio del suo viaggio nel mondo della droga,affrontando prima l’LSD poi l’eroina,infine perfino la prigione.Fu quando uscì da quest’ultima esperienza di vita che iniziò a comporre musica e fu Graham Nash,del celebre trio californiano,a produrre il suo primo singolo.Dopo l’uscita dell’album e i tour come spalla con i mitici “CSN” l’industria discografica per ovvi motivi l’abbandona a se stessa dopo averla prima osannata come una nuova Joni Mitchell,il disco non vende e dopo “Heart Food” del 1973 si perdono le sue tracce fino alla sua dipartita nel 1979,all’età di trentacinque anni,probabilmente suicida a causa di un overdose.Comunque bellissimo e da riscoprire il suo primo disco con musiche di spessore e testi di grande fascino,principalmente a sfondo cristiano e di redenzione,ponendola così al vertice di quel genere di cantautrici,il riferimento è la stessa Joni Mitchell,principalmente basato su voce e chitarra.Un album da rivalutare e come figura un contraltare al femminile del mitico Nick Drake,solo con una vita infinitamente più drammatica. (11/5/2022) ****
Il cantante Stevie Wonder,nato nel 1950 nel Michigan come Stevland Judkins,appena maggiorenne si sarebbe potuto tranquillamente ritirare dalla scena musicale essendo di fatto già entrato negli annali della musica soul con al suo attivo una decina di album,più numerosissimi singoli,avendo iniziato a pubblicare dischi all’età di dodici anni,il suo “The Jazz Soul of Little Stevie Wonder” è del 1962,inserendo via via,opera dopo opera,anche brani di sua composizione.Invece clamoroso il raggiungimento della maggiore età gli consente di ridiscutere il contratto con la famosa “Motown” e di strappare concessioni economiche incredibili,ma quello che più conta “carta bianca” assoluta dal punto di vista artistico.Divertendosi a mescolare l’elettronica con l’acustica pubblica così uno dopo l’altro quattro album uno più bello dell’altro iniziando da “Music of my Mind” del 1972,seguito da “Talking Book” ,Innervision” e “Fullfillingnes’First Finale” prima di spegnere quasi definitivamente tutte le sue capacità compositive nell’inarrivabile “Songs in the Key of Life” del 1976.Dovendo scegliere tra tanti capolavori e considerato non recensibile per la sua eccessiva bellezza e straordinarietà l’ultimo citato,considero il terzo,”Innervision”,pubblicato nell’agosto 1973,uno dei suoi dischi più equilibrati e piacevoli di quei favolosi quattro anni.Inserito al ventitreesimo posto degli album più belli di sempre dalla rivista “Rolling Stone”,poi sceso al trentaquattro nell’ultima revisione del 2020,il disco scorre incredibilmente come meglio non potrebbe con brani come “Too High”,”Living for the City” e “Golden Lady” fino alla famosa “Don’t You Worry ‘bout the Thing” ripresa negli anni anche da altri interpreti,una fra tutte la bella versione del gruppo “Incognito” nel 1992.Non mancano certo i brani lenti e “Visions” resta uno dei migliori.Un album da assimilare assolutamente,uno dei migliori di Wonder,perché credetemi nonostante gli anni che passano ogni occasione è buona per ascoltarlo. (21/3/2022) ****
Nel lontano 1972 il regista Fernando di Leo dirigeva “Milano Calibro 9”,il primo film di una trilogia tratta da alcuni racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco,gli altri sono “La Mala Ordina” 1972 e “Il Boss” 1973,con un cast eccezionale che comprendeva l’ottimo Gastone Moschin,la bellissima Barbara Bouchet,il caretterista Mario Adorf,oltre a un giovane Philippe Leroy e a un sempre bravo Luigi Pistilli.Il film,di genere poliziesco con risvolti thriller,peraltro molto interessante e da riscoprire per chi non lo conosce,si avvaleva anche di una bellissima colonna sonora composta per la parte orchestrale da Luis Enrique Bacalov,già autore dell’ottimo “Concerto Grosso per i New Trolls” che era a sua volta colonna sonora del film “La Vittima Designata” del 1971,e per la parte restante di stampo progressive dal gruppo napoletano degli Osanna.Il risultato finale è che “Milano Calibro 9” è un ottimo disco,con le composizioni di stampo classico-orchestrali che si sposano benissimo con le parti sperimentali e di improvvisazione basate sulla genialità degli Osanna che venivano da un ottimo album “L’Uomo” e che poi dopo questa esperienza avrebbero licenziato il loro capolavoro,quel “Palepoli” considerato una pietra miliare da tutti gli amanti del progressive italiano.Da vedere il film,da ascoltare la sua colonna sonora,con un occhio di riguardo a quella “Canzona” che chiude l’album,una perla davvero preziosa con la voce del cantante Lino Vairetti in grande spolvero. (7/1/2022) ****
Nel lontano 1968 esce il sesto album di questo formidabile quartetto inglese,”The Kinks”,capitanati dal talentuoso Ray Davies,in pratica autore di tutto il materiale del gruppo.Con una formula classica alla Beatles,doppia chitarra,basso e batteria con Dave Davies,fratello di Ray,alla chitarra solista,il complesso esordisce nel 1964 con il botto,un 45 giri “You Really Got Me” precursore di un sound che influenzerà non poco le nuove generazioni del rock che sbancherà le classifiche di vendita seguito dall’album “The Kinks”,altrettanto venduto e di successo sia in Inghilterra sia in America.Sembravano indirizzati a una carriera folgorante quando,soprattutto in America,alcuni problemi comportamentali ne offuscarono la luce e di conseguenza anche le vendite.Rimasero comunque apprezzatissimi in Gran Bretagna soprattutto perché,oltre alle apprezzabili melodie,i testi di Ray Davies omaggiavano prevalentemente ritratti e situazioni prettamente britanniche con album come “Kinda Kinks” e “Face to Face”,quest’ultimo considerato uno dei loro dischi più importanti.Con “The Village Green Preservation Society” si rasenta il capolavoro,un concept album che ha per tema la società inglese nella sua interezza,i suoi disagi e i suoi malinconici aspetti,oltre a un pessimismo di fondo che molte ingiustizie sociali faranno fatica a trovare una soluzione.Con brani come “Picture Book”,”Johnny Thunder”,la title track e soprattutto la splendida “Days”,Ray Davies riesce a catapultarci in quel periodo storico dove tutto sembrava scintillante e bellissimo ma che invece nascondeva tanta polvere sotto il tappeto e parecchia tristezza che l’autore riesce perfettamente a descrivere dimostrando di essere uno dei più grandi poeti di quell’epoca,influenzando di fatto indirettamente i gruppi a venire come i “Blur”,”Oasis”,gli “Style Council” di Paul Weller,uno dei più grandi ammiratori dei “Kinks”.Un grande disco,orecchiabile e profondo allo stesso tempo che una volta ascoltato non si riesce più a metterlo da parte. (25/11/2021) ****
Un’affascinante serie di concerti per i Rolling Stones nella loro tournee americana del 2015,soprattutto perché per la prima volta dagli inizi settanta viene riproposto,tra gli altri successi,l’intero “Sticky Fingers” del 1971,con la registrazione dell’intero spettacolo il 20 maggio al “Fonda Theatre” di Los Angeles,un piccolo teatro sull’Hollywood Boulevard da circa 1300 posti.L’album in questione arriva dopo i capolavori “Beggars Banquet” e “Let it Bleed”,quest’ultimo conosciuto come il disco che presentò il nuovo chitarrista Mick Taylor al posto di Brian Jones,allontanato per i suoi eccessi morto poi poco tempo dopo.Considerato uno dei grandi capolavori del gruppo,ricordiamo “Pietra Miliare Onda Rock” e tra primi cento album più belli di sempre,in “Sticky Fingers”,mitica inoltre fu anche la copertina con una vera cerniera che aprendola portava alla luce il pacco degli Stones,trovano spazio brani celebri come l’eterna “Brown Sugar” e la significativa “Sister Morphine” scritta in collaborazione con Marianne Faithfull allora compagna di Jagger,la bellissima ballata “Wild Horses” che venne registrata ancor prima da Gram Parsons e tanto tanto blues,da sempre vecchio amore del gruppo.Ma il brano capolavoro è “Can’t You Hear Me Knocking” che con una durata originaria di oltre sette minuti lascia spazio a un superbo assolo di chitarra di Taylor,che qui se la gioca con Carlos Santana,oltre a un immenso passaggio di sassofono che completa divinamente il brano rendendolo a oggi uno dei pezzi più riusciti e originali dell’intera produzione Stones.Il concerto registrato,complice l’intima atmosfera del piccolo teatro lontanissima come tipologia dai grandi stadi dove il gruppo è solito esibirsi,risulta straordinario e a parte il classico inizio di “Start Me Up”,giusto per scaldare la platea,si concentra sull’intero album con una scaletta diversa rispetto al disco,probabilmente quella originaria di registrazione,in un crescendo di emozioni che non vorrebbe mai vedere la fine,con gli Stones in grande spolvero nonostante gli anni che passano per tutti ma evidentemente non per loro.La classica chiusura del concerto con “Jumpin Jack Flash” sigilla una serata di musica fantastica,beato davvero chi era lì,che comunque non dimentichiamo trae spunto quasi del tutto da un album storico e veramente bellissimo che consiglio a tutti di recuperare e riascoltare. (5/8/2021) ****
Singolare la vicenda dell’album del cantautore Roberto Vecchioni “Montecristo”,sottotitolo “La città senza Donne”,pubblicato originariamente nel 1980 dalla casa discografica Philips con cui il cantautore aveva ripreso i contatti dopo la non felice esperienza dell’anno precedente di “Robinson” edito dall’allora etichetta emergente Ciao Records fondata nel 1978 dall’ex batterista dei “Profeti” Osvaldo Bernasconi e rimasta in attività fino ai primi anni ottanta.Fu proprio la stessa Ciao Records,una volta venuta a conoscenza che Vecchioni sarebbe tornato alla Philips,a disco ultimato e vincendo la causa per inadempienza del contratto,a bloccarne la ristampa non permettendo fino all’ottobre 2020,quando evidentemente si è trovato il modo di risolvere il problema,di ristampare il disco né in vinile né in CD.Le nuove edizioni peraltro a colori e con ulteriori disegni rispetto al progetto originale,tutti di Andrea Pazienza,sono belle e molto ricche nei contenuti a riaffermare la validità di un progetto che anche allora colse nel segno proponendo una inedita svolta rock nel percorso musicale del cantautore,con il sottotitolo che omaggia in negativo il film di Fellini cui Vecchioni resta legato,facendo da sfondo a una serie di titoli prevalentemente al femminile.Spicca “Ciondolo”,il capolavoro del disco dalla inusuale durata di oltre nove minuti,col suo azzeccato arrangiamento in chiave jazz,sul tragico risvolto di un amore finito male.Ulteriori brani da segnalare “La Strega”,sulla madre della sua ex moglie evidentemente non molto amata,”Madre”,un caro omaggio a chi l’ha cresciuto,ma soprattutto la splendida “Canzone da Lontano”,dedicata alla figlia che per evidenti motivi di lavoro non ha potuto seguire e vedere come avrebbe voluto.Complessivamente un ottimo disco da riscoprire,ora che si può acquistare in una veste nuova,moderna e attuale,da riascoltare riflettendo sul mondo femminile,non sempre rose e fiori,secondo il punto di vista del caro Vecchioni. (18/6/2021) ****
Pubblicato nel dicembre 1970 “Lizard” è il terzo album del gruppo britannico “King Crimson” e ne erano cambiate di cose dal mitico e insuperabile esordio “In the Court of the Crimson King” presentato ufficialmente live nel luglio 1969 a Londra in Hyde Park davanti a oltre trecentomila persone in occasione del concerto gratuito “The Stones in the Park” che i “Rolling Stones” organizzarono per presentare il nuovo chitarrista Mick Taylor e in omaggio allo scomparso Brian Jones.La critica e le riviste musicali furono così entusiaste della prima esibizione di Fripp e soci che l’uscita dell’album non poteva che essere un successo e detto tra noi resta ancora oggi un disco meraviglioso e insuperabile.Le gioie dell’esordio però passarono presto con il cantante-bassista Greg Lake che stanco del dittatore Fripp,bocciò alcuni suoi brani che più tardi troveranno posto nella produzione del trio E.L.& P.,lascerà per questa nuova avventura musicale.Così già nel loro secondo pur bello “In the Wake of Poseidon” del maggio 1970 la formazione era stravolta con l’unica certezza del poeta Pete Sinfield ai testi e dello stesso Fripp per le parti musicali e così sarà a seguire per quasi per tutti i dischi con il gruppo che via via troverà ispirazione dai nuovi arrivati che si avvicenderanno negli anni,rimanendo il chitarrista Fripp unico punto di riferimento del progetto.Dovendo scegliere un album tra tutta la meraviglia di suoni e atmosfere composte dal gruppo in quegli anni definirei “Lizard” uno dei più belli e completi della loro produzione.Una sequenza di brani,stavolta interamente scritti dalla coppia Sinfield/Fripp,tutti affascinanti,senza debolezze,senza cadute di tono,in un mix di progressive e pezzi più orecchiabili che difficilmente si ritrova nelle future pubblicazioni.Dalla traccia d’apertura “Cirkus” alla gioiosa “Happy Family”,dedicata ai Beatles appena sciolti,dalla meravigliosa “Lady of the Dancing Waters” che chiude il primo lato,alla lunghissima “Lizard” che occupa tutto il secondo lato accompagnata in alcune parti dalla voce celestiale del cantante degli “Yes” Jon Anderson.Un album pressoché senza difetti che chiude in bellezza la prima parte di carriera dei “King Crimson” che avranno in seguito nel loro arco molte altre frecce da scoccare tra le quali i bellissimi “Larks Tongues in Aspic”,”Red” e “Islands”.Ma “Lizard” è un qualcosa che rimane nel cuore dell’ascoltatore forse più degli altri ed è come qualità dell’insieme molto vicino a quell’esordio tanto celebrato e osannato che decretò i “King Crimson” una band da ricordare negli anni a venire. (14/4/2021) ****
La fortuna di Mike Oldfield,polistrumentista inglese dal grandissimo talento,fu che il produttore britannico Richard Branson fondando nel 1972 la casa discografica Virgin decise che “Tubular Bells”,la prima opera del musicista che fino ad allora aveva ottenuto un rifiuto dopo l’altro,dovesse essere il primo titolo del nuovo catalogo pubblicandola così nel 1973.Seguito da un enorme e imprevedibile successo il disco vanta ad oggi il numero uno nella Chart inglese e oltre duecento settimane in classifica grazie anche al fatto di essere stato inserito nella colonna sonora del film campione d’incassi “L’Esorcista”.La magia delle due lunghe suite,una per facciata nei vecchi vinili,fu prontamente replicata l’anno seguente con l’uscita di “Hergest Ridge” in omaggio alla località inglese al confine col Galles dove Oldfield amava ritirarsi nei suoi momenti di vacanza.Il risultato fu ancora molto prestigioso con l’album che arriva come il precedente al primo posto,scalzando proprio “Tubular Bells”,confermando il musicista inglese come uno dei nomi più accreditati nel “Progressive-Rock” inglese di quel momento.Purtroppo la formula fino ad allora vincente fu ripetuta nel tempo forse troppe volte,riproponendo suite strumentali piuttosto simili,per questo l’attenzione degli ascoltatori dal successivo “Ommadawn” del 1975 diminuirà ma Oldfield negli anni saprà rinnovarsi e trovare nuovi percorsi,sconfinando con una serie di brani cantati anche nel pop e arrivando con “Crisis” del 1983,una giusta misura tra vecchie e nuove sonorità,a ritrovare gran parte del successo passato.Dovendo comunque scegliere tra le opere della sua prima parte di carriera “Hergest Ridge” rimane senza ombra di dubbio come costruzione e struttura musicale uno degli episodi più belli,per certi versi ancora più ammaliante di “Tubular Bells”,un disco sicuramente da riscoprire e da riascoltare più volte lasciandosi incantare dalle sue bellissime ed eteree melodie. (8/2/2021) ****
Era il 1977 quando usciva l’album della “Locanda delle Fate” intitolato “Forse Le Lucciole Non Si Amano Più” e nel frattempo la “Premiata Forneria Marconi” pubblicava “Jet Lag” il loro ultimo disco della meravigliosa avventura americana,il “progressive” italiano e internazionale agonizzava,tanti altri dischi di questa natura sono usciti successivamente ma ormai senza più alcun interesse.Si potrebbe decretare dunque questo album come il canto del cigno di un genere che anche da noi aveva già dato tutto il suo possibile,si pensi alle “Orme”,al “Banco del Mutuo Soccorso”,ai “New Trolls”,agli “Osanna” e alla stessa “PFM” solo per citare i gruppi più importanti.Eppure questo primo e unico disco della “Locanda delle Fate” rimane un piccolo grande capolavoro innanzitutto per l’originalità del prodotto che pur attingendo ai capolavori dei primi anni settanta sviluppa un proprio percorso che amalgama a dovere e con grande padronanza vecchie e nuove sonorità intelligentemente aggiornate rispetto ai tempi ormai passati.Da segnalare poi la bravura di un gruppo di giovani ragazzi che seguendo la maestria del pianista Michele Conta,appena uscito allora dal conservatorio,sommata alla duttiltà del batterista Giorgio Gardino e ai testi del cantante Leonardo Sasso elaborò una serie di brani eccezionali,fondendo il progressive col pop,con una musicalità davvero unica senza per questo scadere nel commerciale.Infine il tema di fondo del disco,la nostalgia,la fine della propria gioventù e quindi di un’epoca,impregnata di una malinconia latente percepita in quasi tutti i brani,soprattutto in “Profumo di Colla Bianca” dove le parole sono proprio rivolte alla propria infanzia ormai andata,con alla base un tappeto musicale emozionante che ne fa il vero brano capolavoro dell’intero lavoro.Un disco unico che ha sorpreso anche me,non conoscendolo affatto fino a poco tempo fa,da ascoltare e riascoltare all’infinito,segnalando anche che su You Tube sono presenti filmati RAI,in un nostalgico bianco e nero,risalenti alla presentazione di questo album nel lontano 1977. (28/12/2020) ****
I “Midlake” sono un gruppo rock statunitense formatosi in Texas agli inizi degli anni duemila e proprio nel 2001 iniziano il loro percorso rilasciando una prima pubblicazione-un EP-che vende pochissime copie.Il primo album vero e proprio dal titolo “Bamnan and Slivercork”risale invece al 2004 e con un tour di successo in Europa iniziano a fare sul serio facendosi notare a un pubblico sempre più vasto.Abbandonano subito le sonorità piuttosto psichedeliche e sperimentali del primo disco con l’uscita del secondo “The Trials of Van Occupanther” andando a recuperare sonorità folk dei primi anni settanta,quelle per intendersi dei vari “Crosby Stills Nash and Young” e loro simili.Considerato il loro disco più bello la rivista musicale britannica “New Musical Express” lo inserisce tra i migliori dischi del 2006 ma altri si spingono oltre fino a classificarlo come uno dei più bei dischi degli anni duemila.Hanno ragione perché questo album con le sue morbide e dolci ballate,le sue favole e personaggi immaginari,rammentano molto i primi “Genesis” e per quelli come me che ascoltano regolarmente dischi folk risalenti ai primi anni settanta è stato un vero e proprio tuffo nel passato,riconoscendo inoltre il coraggio per una band dei tempi moderni di avventurarsi a ripercorrere quei passaggi musicali,oggi fuori moda e dimenticati.Tra i brani più significativi da segnalare sicuramente le tracce centrali soprattutto la magica “Young Bride”,assistita anche da un video affascinante reperibile su You Tube,dove davvero l’orecchio gode sia per la bellissima voce di Tim Smith,autore tra l’altro di tutti i brani,sia per le parti musicali sicuramente all’altezza di quel periodo d’oro che i più avanti negli anni ricorderanno sicuramente molto volentieri.Disco da far girare fino allo sfinimento e consigliato con grande gioia. (19/10/2020) ****
Singolare la storia di Robert Wyatt,musicista e polistrumentista nato a Bristol in Inghilterra nel 1945 e già da adolescente iniziatore di quel movimento musicale progressive inglese noto come “Scena di Canterbury”.Il suo primo gruppo di un certo spessore,gli “Wilde Flowers”,non arrivò a pubblicare neppure un album ma fu la base di partenza per sviluppare con una parte di esso idee e soluzioni musicali più sperimentali.Mentre una parte di quei musicisti,amanti di un sound più melodico,andrà a formare i “Caravan”,nacquero dai rimanenti i “Soft Machine” con i quali Wyatt pubblicherà quattro dischi con il terzo,chiamato appunto Third,considerato il capolavoro della band.In seguito il musicista inglese non rinuncerà a continuare la sua ricerca musicale che attinge molto alle sonorità del jazz,la sua grande passione,fondando i “Matching Mole”,storpiatura francese del nome della vecchia band,ma dopo due album l’incidente che lo colpì nel 1973 la caduta da una finestra che lo rese paralizzato dalla vita in giù,lo costrinse ad abbandonare il gruppo per dedicarsi così a progetti individuali dovendo anche fare a meno di suonare la batteria,suo primo strumento,sviluppando melodie basate prevalentemente sulle tastiere.Nasce già durante i mesi ospedalieri e di riabilitazione dall’incidente “Rock Bottom”,uscito poi nel 1974,dalla sofferenza di aver perso una parte di se,dalla vicinanza della sua compagna che farà parte del progetto con versi poetici di rara bellezza,da un nuovissimo Robert che invece di mollare la vita la cavalca con ancora più determinazione tuffandosi e arrivando al fondo dell’esistenza del suo rock-rock bottom-per poi risalire con nuove e affascinanti sonorità,più maturo,più saggio e più dolce,regalando al mondo un capolavoro con sei brani immensi.Un disco non facile al primo ascolto,un’opera introspettiva difficilmente classificabile,pacata e struggente,ma che trova la sua massima espressione via via che la si ascolta,arrivando piano piano ad assimilarla nel profondo per poi non abbandonarla più. (24/8/2020) ****